Interventi di microchirurgia e chirurgia miniinvasiva sulla colonna vertebrale - Francesco Cacciola

4.

Interventi di microchirurgia e chirurgia miniinvasiva sulla colonna vertebrale

Interventi di microchirurgia e chirurgia mininvasiva sulla colonna vertebrale

Intervenire chirurgicamente significa “fare male per far stare bene”. Quando si esegue un intervento chirurgico, idealmente si sostituisce  un dolore passeggero con un dolore che da solo non passerebbe. 

Per ricevere qualcosa, occorre dare qualcosa, e mentre questa è probabilmente una legge fondamentale della vita per come la conosciamo e un equilibrio in fondo non alterabile (almeno finchè avere la vita significa allo stesso tempo già sottoscrivere al fatto che un giorno la dovremo “restituire”), la natura ci spinge comunque sempre verso “l’ottimizzazione dei processi”, verso l’economia, ovvero il cercare di “ottenere di più spendendo di meno”. 

L’evoluzione nel campo della chirurgia non fa eccezione. Possiamo, in effetti, considerare due vie di ricerca, di innovazione, nel campo degli interventi chirurgici, che spesso avanzano mano nella mano, ma che altrettanto spesso procedono con velocità diverse in base allo stato dell’arte in un determinato campo. Questi due campi o ambiti di ricerca sono da un lato la scoperta e la possibilità di eseguire un determinato tipo di operazione che prima non sembrava fattibile,  e dall’altro la possibilità di eseguire lo stesso tipo di intervento in maniera sempre meno invasiva e pertanto sempre più accessibile e sostenibile per il paziente. 

Nell’ambito della chirurgia vertebrale sono stati raggiunti innumerevoli traguardi anche solo negli ultimi 20-30 anni, e tanti interventi che 30 anni fa sembravano “proibitivi”, perché troppo invasivi e rischiosi per il paziente, oggi sono diventati di routine per un numero sempre più crescente di chirurghi dedicati a questo tipo di chirurgia. 

Il merito di questa evoluzione non sta soltanto nella formazione sempre più adeguata dei giovani chirurghi, che apprendono dall’esperienza maturata dai loro insegnanti, ma anche nel miglioramento delle tecniche chirurgiche. Le tecniche sono, infatti, diventate con l’andare del tempo sempre meno invasive e oggi siamo a un punto in cui è probabilmente difficile immaginare un’ulteriore riduzione dell’invasività nella maggior parte delle operazioni più comuni sulla colonna vertebrale.

Quali sono gli interventi di microchirurgia sulla colonna vertebrale ? In cosa consistono?

Il termine microchirurgia descrive fondamentalmente tutti quegli interventi che vengono eseguiti con il microscopio operatorio o con mezzi di ingrandimento da indossare, come degli occhiali

Il microscopio operatorio è stato introdotto in neurochirurgia negli anni ’70 del secolo scorso e il suo utilizzo nel campo della chirurgia vertebrale ha iniziato a diffondersi a livello planetario nel corso degli anni ’80 del Novecento. Benché si tratti di un lasso (arco) cronologico relativamente esteso, la diffusione dei microscopi, o anche solo delle lenti indossabili, è tuttavia tutt’altro che completata ancora al giorno d’oggi e nei Paesi industrializzati come il nostro. 

La motivazione di questo gap risiede nel fatto che la tipologia di intervento sulla colonna, come l’asportazione di un’ernia discale, è cambiata relativamente poco, in sostanza,  dagli anni ’50 del Novecento a oggi, fatta salva la considerazione che decenni fa il medesimo intervento richiedeva un tempo operatorio molto lungo, tagli molto ampi per visualizzare le strutture da operare a occhio nudo e con ciò anche un rischio maggiore di complicazioni come infezioni e danni nervosi. Con l’avvento della microchirurgia, queste complicazioni si riducono drasticamente, in quanto le strutture anatomiche sono molto meglio visualizzabili e con delle incisioni molto più piccole che permettono di abbassare il rischio di complicazione e di accelerare il recupero del paziente e la sua ripresa di una vita produttiva. 

Vediamo quali sono gli interventi microchirurgici sulla colonna vertebrale.

 

Microdiscectomia per ernie cervicali, dorsali e lombari

L’asportazione di ernie discali lombari e cervicali è oggi diventata un’intervento molto sicuro, poco invasivo e pertanto anche molto diffuso. Un pò più invasive rimangono le ernie discali dorsali, per via della localizzazione anatomica, ma richiedono anche meno frequentemente l’intervento chirurgico. Vediamole segnatamente,  una per volta. 

Microdiscectomia per ernia lombare

La rimozione di un’ernia lombare con l’ausilio del microscopio dovrebbe essere l’intervento di base per ogni chirurgo spinale perché non solo è il più frequente ma anche il più “semplice”, meno rischioso e che assicura i migliori risultati. Consideriamo, di seguito, le risposte alle domande principali per comprendere quando operarsi, e come venga condotto l’intervento.

 

  • Ho un’ernia del disco lombare: mi devo operare ? 

 

La risposta breve alla domanda generica è: “molto probabilmente, no”

Anzitutto le ernie discali lombari sono, nella maggior parte dei casi, asintomatiche, ovvero ci sono ma non causano problemi particolari. Quelle ernie che invece causano problemi lo fanno, anche qui nella maggior parte dei casi, solo per un tempo limitato. 

In altre parole, solo una piccola parte delle ernie discali lombari, probabilmente il 10-15%, necessita a un certo punto di un intervento chirurgico per migliorare il dolore. 

 

  • Quando mi devo operare per l’ernia discale lombare?

 

La risposta immediata e generica a questa domanda è: “Molto raramente in maniera urgente, ma nella grande maggioranza dei casi quando vuole lei o quando sarà possibile!”.

L’ernia discale lombare è molto raramente un’urgenza come nel caso della sindrome della cauda equina. In tutti gli altri casi, l’ernia tende a guarire da sé, in un periodo variabile attorno ai due mesi. Una volta trascorso questo periodo senza che si veda un miglioramento, oppure se i dolori siano incoercibili e resistenti a qualsiasi trattamento non operativo, si può optare per l’intervento. Non essendo quindi necessario in questo caso intervenire entro un certo limite di tempo, diciamo solitamente che può essere il paziente stesso a decidere quando si vuole operare, compatibilmente con la disponibilità degli ospedali e del servizio sanitario che ha liste di attesa spesso anche molto lunghe per quegli interventi che non sono valutati come urgenti. 

 

  • Come si svolge l’intervento di microchirurgia per ernia discale lombare?

 

Afferendo alla microchirurgia e quindi poco invasivo, l’intervento richiede un ricovero in ospedale che può andare da un day hospital fino a una-due notti in ospedale. L’anestesia può essere spinale, ovvero infiltrazione di farmaci anestetici nel canale spinale che addormenteranno le gambe e la sensibilità dolorosa nella zona schiena-gambe, o anestesia generale

La posizione del paziente è generalmente a pancia in giù e una volta preparato il campo operatorio si esegue una radiografia con un apparecchio mobile per individuare il livello esatto su cui intervenire. Si pratica, allora, una piccola incisione verticale di circa 2-3 cm sul punto che corrisponde al disco che ha dato luogo all’ernia. Con strumenti appropriati, ci si approfondisce poi nei tessuti sottocutaneo, grasso e muscolare fino a giungere sulla colonna vertebrale. A quel punto, si esegue una nuova radiografia per confermare sulla colonna stessa il livello corretto di intervento

Si applicano ora dei divaricatori che permettono di tenere libero il corridoio operatorio che si è così creato.Si introduce il microscopio operatorio che permette da un lato l’ingrandimento delle strutture che si vanno a operare e allo stesso tempo di illuminare con una fonte luminosa vivida il campo operatorio. Considerando che dalla cute fino alla colonna ci sono in media circa 6 centimetri, e il taglio sulla cute è solo la metà – 3 centimetri –, si comprende bene che è difficile guardare in fondo a questo corridoio stretto e profondo facendoci arrivare allo stesso tempo abbastanza luce. 

Posizionato il microscopio, ci si trova davanti la lamina vertebrale, una formazione ossea che chiude posteriormente il canale vertebrale. Viene fatta un’apertura parziale nella lamina con una fresa diamantata di 4 millimetri di diametro e delle pinze ossee da 2 a 4 millimetri. Praticata così l’apertura, che è generalmente di un centimetro di diametro, si accede al canale vertebrale e ci si trova di fronte le strutture nervose che scorrono al suo interno. I nervi sono contenuti dentro una guaina che ha la consistenza di una pellicola biancastra e che li racchiude a mo’ di sacco o tubo assieme a un liquido, il liquor cefalo-rachidiano. Il liquor, così come tutta la guaina, la dura madre, sono in comunicazione ed in continuità dirette con il cranio, dove vanno a coprire e ad avvolgere il cervello. 

Una volta, quindi, di fronte alle strutture nervose nel canale spinale, occorre mobilizzarle e spostarle con dei dissettori, sottili e lunghe spatoline metalliche, per mettere in evidenza l’ernia discale che si trova davanti o sotto ai nervi. A questo punto si procede, con delle pinze apposite, all’asportazione dell’ernia, eseguendo “ l’erniectomia” nei casi in cui l’ernia sia espulsa, trovandosi quindi più o meno libera all’interno del canale. Nel caso in cui l’ernia discale è contenuta, e magari ancora in contatto e ancorata al disco di origine, si incide il disco e si pratica il suo svuotamento parziale, la “ discectomia”.

Tolta la compressione erniaria e discale, si verifica che tutti i nervi siano liberi e che non ci siano sanguinamenti nel campo operatorio e nel corridoio chirurgico. Si procede quindi alla chiusura della breccia chirurgica con delle suture a più strati, l’ultimo quello della pelle e visibile all’esterno. La chiusura della pelle può avvenire con materiali diversi che possono essere semplici sterili strips, strisce di cerotto bianco, colla, fili riassorbibili o clips metalliche. 

 

  • Una volta operato di microdiscetomia lombare, cosa mi aspetta e come mi devo comportare?

 

Il recupero postoperatorio è generalmente rapido. La mattina dopo l’intervento, se necessario già la sera stessa, ci si alza in piedi e si riprende a camminare. Nei casi di dolore forte e continuo prima dell’intervento, si avverte solitamente fin da subito il miglioramento dei sintomi. Eventuali perdite di forza presenti prima dell’intervento richiedono più tempo per il recupero ed eventualmente della fisioterapia, in base alla gravità. 

Una volta accertato che la deambulazione avviene senza problemi, che la ferita è in ordine e che non vi siano sintomi dolorosi o neurologici insoliti, si è già pronti per la dimissione

Un busto lombare o altri tutori del genere non sono generalmente necessari.

In questo modo, la permanenza complessiva in ospedale per un intervento di microdiscectomia può durare attorno alle 24 ore, nei casi in cui il ricovero avvenga il giorno dell’intervento stesso. 

Una volta tornati a casa non vi sono regole particolari da osservare: ci si può muovere liberamente, senza compiere sforzi come sollevamenti di pesi o piegamenti della schiena ripetuti. 

La ferita va ispezionata a giorni alterni, sostituendo il cerotto. Qualsiasi perdita di liquido dalla ferita oppure arrossamenti che tendono ad aumentare una volta dimessi, vanno comunicati al medico. 

Dopo 3-4 giorni, a ferita asciutta, si può bagnare la ferita senza strofinarla. I punti, laddove presenti o non riassorbibili, vengono tolti generalmente attorno ai 10 giorni. 

Il rientro al lavoro va ponderato da caso a caso, ma sostanzialmente un lavoro sedentario potrebbe anche essere ripreso dopo 7-10 giorni, mentre per lavori fisici si dovrebbe attendere dalle 6 alle 8 settimane. 

La fisioterapia non è generalmente necessaria, tranne nei casi in cui vi siano deficit di forza o squilibri posturali da recuperare. 

 

  • Che rischi e complicazioni ci possono essere con la microdiscectomia lombare?

 

L’utilizzo dell’ingrandimento ottico e la conseguente riduzione dell’invasività rendono la microdiscecotmia oggi un intervento con un livello di rischio assolutamente accettabile

Il rischio principale è la mancata risoluzione del dolore o comunque una riduzione del dolore insufficiente per il paziente. Questo rischio si aggira attorno al 10% e può essere dovuto a una serie di cause che vanno da una insufficiente decompressione dei nervi fino a un danno permanente del nervo, che si è instaurato prima dell’intervento e che persiste nonostante la liberazione dei nervi. In questo scenario il paziente non sta peggio di prima, ma neanche meglio. 

Seguono poi,  in termini di frequenza, quelle complicazioni che peggiorano le condizioni del paziente, e fra le quali possiamo elencare l’infezione, il sanguinamento eccessivo, il danno a uno o più nervi, la mancata chiusura della ferita con fistolizzazione di liquor (dovuto a rottura accidentale dell’involucro dei nervi di cui sopra con costante fuoriuscita di liquido), che si può accompagnare a cefalee e senso di debolezza generale. La maggior parte di queste complicazioni è comunque generalmente recuperabile con una terapia adeguata mentre, nei casi più gravi, necessita di una reoperazione. Danni permanenti, specie di natura nervosa, come nel caso peggiore la paralisi, sono oggi estremamente rari e vanno pertanto menzionati principalmente per dovere di completezza. 

 

  • Ma è vero che non conviene operarsi per ernia del disco perché tanto, poi, ritorna?

 

La risposta breve è: “No! Se i sintomi e la durata lo giustificano, conviene senz’altro prendere in considerazione l’operazione ”. 

Questa è una domanda piuttosto frequente e vale la pena considerarla separatamente. 

Dal 5% al 10% delle ernie discali operate possono ripresentarsi ad un dato momento. In realtà non è che si ripresenti la stessa ernia, che appunto era stata rimossa, ma il disco intervertebrale, che non viene mai rimosso del tutto durante quest’operazione, può produrre una nuova ernia

A questa percentuale di ritorno di un’ernia e dei suoi sintomi si aggiunge, poi, la possibilità di sviluppare un’altra ernia, ma a un livello vertebrale diverso, che nasce cioè da un altro disco intervertebrale. Nella colonna lombare abbiamo 5  livelli vertebrali e quindi altrettanti dischi che possono dare luogo a ernie discali con probabilità più o meno alta. Infine, oltre alla possibilità di un’ernia discale sullo stesso o un altro livello, chi è incline a problematiche con la schiena potrebbe anche sviluppare un restringimento del canale vertebrale, che è una problematica distinta dall’ernia discale, benché simile e spesso caratterizzata dagli stessi sintomi

Riassumendo, il rischio del ritorno di un problema di ernia allo stesso livello già operato è piuttosto basso. In un caso ben indicato, ovvero con persistenza di dolore da mesi e che non risponda bene alla terapia conservativa, la probabilità di continuare a stare male senza l’operazione è senz’altro molto superiore a quella di eventualmente dover rifare l’operazione per il ritorno di un’ernia nello stesso punto. 

 

 

Microdiscectomia per ernia cervicale

  • Ho un ernia cervicale: mi devo operare?

Vale qui lo stesso discorso già fatto per le ernie lombari, ovvero che l’avere o meno un’ernia discale non significa ancora niente, ma va considerato se l’ernia causi sintomi, e quali, prima di porre un’indicazione alla chirurgia. Anche nel caso della colonna cervicale, la grande maggioranza di ernie è asintomatica o cessa di dare fastidio spontaneamente.

  • Quando mi devo operare per ernia discale cervicale?

Per l’ernia cervicale il discorso su quando operare è in parte diverso rispetto all’ernia lombare. A causa della sua posizione anatomica diversa, l’ernia cervicale può creare un danno neurologico più importante di quella lombare, nel senso che nella peggiore delle ipotesi può condurre a una paralisi completa degli arti inferiori o paraplegia o, se l’ernia è a un livello vertebrale alto, addirittura a una paralisi di gambe e braccia, la tetraplegia.

Eventi drammatici di questo genere sono comunque molto rari, ma un’ernia cervicale trascurata che continui a premere sul midollo può portare a una perdita di funzionalità delle gambe e/o delle braccia e se non operata in tempo questa perdita, o deficit, può diventare irreversibile.

Pertanto, la valutazione specialistica con un esame neurologico accurato è indispensabile nell’ernia cervicale, e laddove si accerta una compromissione funzionale progressiva, l’indicazione all’intervento diventa assoluta. Per il resto, è indicato l’intervento anche laddove, dopo circa due mesi, il dolore cervicale e/o nel braccio, che può essere attribuito all’ernia, non tenda a passare e crei problemi al paziente.

  • Come si svolge l’intervento per ernia discale cervicale?

L’approccio standard per l’ernia cervicale consiste in una via anteriore e non posteriore come nell’ernia lombare. In anestesia totale, il paziente viene sdraiato supino (a pancia in su) sul tavolo operatorio e viene effettuata una radiografia della colonna cervicale, che permettere di identificare a che altezza del collo praticare l’incisione per giungere sul livello vertebrale desiderato. Si pratica, quindi, una incisione orizzontale di circa 2-3 cm sulla parte destra del collo e ci si approfondisce in mezzo alle varie strutture del collo per giungere sull’aspetto anteriore della colonna cervicale. La trachea e l’esofago vengono spostati verso la parte sinistra, mentre i vasi del collo vengono spostati verso la destra.  Una volta giunto sulla colonna vertebrale, si esegue una nuova radiografia per riconfermare il livello corretto da operare e si posizionano dei divaricatori appositi per mantenere aperto il corridoio chirurgico .

Si introduce allora il microscopio operatorio e si procede alla rimozione del disco vertebrale per intero. Una volta tolto il disco, si asporta con esso l’ernia discale e si verifica la completa decompressione del midollo spinale e dei rispettivi nervi cervicali. Si inserisce a questo punto un piccolo spessore di 5-7 mm di altezza all’interno dello spazio, dove prima si trovava il disco, per concludere l’intervento. Lo spessore, chiamato anche gabbia (o in inglese cage), può essere di varia natura, essendo i materiali più comuni il titanio o il PEEK (poliethiletherketone), un materiale plastico con una densità vicina a quella ossea.

Dopo aver verificato che non ci siano punti di sanguinamento o altre problematiche legate alle strutture del collo, si procede alla chiusura della ferita con sutura a strati. La cute viene chiusa con materiali diversi che possono essere semplici “Steri Strips” (strisce di cerotto bianco), colla, fili riassorbibili o clips metalliche.

  • Una volta operato di microdiscetomia cervicale, cosa mi aspetta e come mi devo comportare?

L’intervento di microdiscectomia cervicale, come quello lombare, richiede un tempo di ricovero molto breve e in genere è sufficiente un pernottamento in ospedale. È un intervento che comporta un dolore postoperatorio minimo, in quanto la dissezione muscolare è molto limitata e si passa per una via naturale, separando le strutture anteriori del collo per giungere sulla colonna vertebrale.

La mobilizzazione in piedi è immediata appena le condizioni del paziente lo consentono e la dimissione avviene generalmente nella prima giornata post-operatoria.

Una volta dimesso, per il paziente non vi sono regole specifiche da osservare, tranne l’evitare di fare sforzi, incluso il sollevamento di pesi o mobilizzazioni del collo eccessive.

Non occorre generalmente portare il collare cervicale.

La ferita va ispezionata a giorni alterni, cambiando il cerotto e qualsiasi perdita di liquido dalla ferita oppure arrossamenti che tendono ad aumentare una volta dimessi, vanno comunicati al medico.

Dopo 3-4 giorni, a ferita asciutta, si può bagnare la ferita senza strofinarla. I punti, laddove presenti o non riassorbibili, vengono tolti generalmente attorno ai 10 giorni.

Il rientro al lavoro va ponderato da caso a caso, ma sostanzialmente un lavoro sedentario potrebbe anche essere ripreso dopo 7-10 giorni, mentre per lavori fisici si dovrebbe aspettare dalle 6 alle 8 settimane.

La fisioterapia non è generalmente necessaria, tranne nei casi in cui vi siano deficit di forza o squilibri posturali da recuperare.

  • Che rischi e complicazioni possono insorgere con la microdiscectomia cervicale?

I rischi sono sostanzialmente simili a quelli già descritti sopra per l’ernia lombare. La differenza, come illustrato all’inizio di questa sezione, è la posizione anatomica dell’ernia cervicale. Mentre per l’ernia discale lombare un eventuale danno neurologico è in genere limitato a un gruppo muscolare specifico nella gamba, nell’ernia cervicale un danneggiamento del midollo spinale potrebbe portare anche a una paralisi completa. Ovviamente, oggigiorno, in mani esperte questo rischio è talmente minimo che appare più dannoso tenersi un’ernia cervicale che non smette di creare problemi, anziché sottoporsi all’operazione. 

  • Che rischi e complicazioni ci possono essere con la microdiscectomia cervicale ?

I rischi sono sostanzialmente simili a quelle già descritte sopra per l’ernia lombare. La differenza, come discusso all’inizio di questa sezione, è la posizione anatomica dell’ernia cervicale. Mentre per l’ernia discale lombare un’eventuale danno neurologico è in genere limitato a un gruppo muscolare specifico nella gamba, nell’ernia cervicale un danneggiamento del midollo spinale potrebbe portare anche a una paralisi completa.

Un’altro rischio specifico dell’approccio anteriore per l’ernia cervicale riguarda le strutture del collo che vanno mobilizzate per giungere sulla faccia anteriore della colonna cervicale. Cosi possiamo avere un danneggiamento dei nervi che sono responsabili per il funzionamento delle corde vocali con conseguente raucedine e alterazioni di voce, o lesioni dell’esofago o della trachea o dei vasi del collo con sanguinamento. Tutti questi rischi maggiori sono molto bassi e siamo grossomodo al si sotto del 1%. Ovviamente, oggigiorno, in mani esperte questo rischio è talmente piccolo che appare più dannoso tenersi un’ernia cervicale che non smette di creare problemi, anziché sottoporsi all’operazione. 

Microdecompressione per stenosi del canale vertebrale

La stenosi del canale vertebrale, o restringimento del canale, è una problematica piuttosto frequente ed aumenta con l’aumentare dell’età.

Distinguiamo tre tipi di stenosi in base al livello della colonna in cui occorrono: la stenosi lombare, la stenosi dorsale e la stenosi cervicale.

Microdecompressione per la stenosi lombare

  • Ho una stenosi lombare (un restringimento del canale lombare),  mi devo operare ?

La risposta breve alla domanda è “ Se causa dei problemi, a un certo punto probabilmente si“.

Il restringimento del canale vertebrale lombare provoca una compressione delle strutture nervose che scorrono al suo interno ed in questo è molto simile all’ernia discale sintomatica. Vale pertanto essenzialmente lo stesso discorso già fatto per le ernie con la differenza che la stenosi si instaura generalmente in maniera graduale e su un periodo piuttosto lungo. Un altra differenza importante rispetto all’ernia è che l’ernia nella maggior parte dei casi tende a risolversi, o perlomeno a smettere di fare male, mentre la stenosi, al contrario, tende spesso a peggiorare nel tempo. La probabilità di una stenosi lombare di peggiorare nel tempo viene stimata generalmente a oltre il 70%.

Occorre quindi valutare se una stenosi, laddove presente, causa dei sintomi e, se lo fa, stabilire se questi sintomi sono stabili o se invece tendono a peggiorare nel tempo. Se i sintomi sono invalidanti o limitato la qualità di vita, o/e se sono progressivi e peggiorano nel tempo, generalmente è indicato fare l’intervento .

  • Come si svolge la microdecompressione del canale vertebrale per stenosi lombare ?

La tecnica chirurgica della microdecompressione per stenosi lombare è sostanzialmente la stessa della microdiscectomia per ernia discale lombare come già descritta nella rispettiva sezione.

La differenza tecnica può essere che nella stenosi lombare magari non si rende necessario intervenire sul disco intervertebrale in quanto la compressione che causa la stenosi, o restringimento, è spesso prevalentemente di natura ossea o dovuta a ispessimento e calcificazione dei legamenti.

Per questo motivo questo intervento viene talvolta anche chiamata “ricalibraggio o ricostruzione del canale vertebrale”, in quanto, più che togliere un elemento compressivo dal canale vertebrale, come nel caso dell’ernia, nel caso della stenosi vertebrale si tratta di un vero e proprio ripristino e rimodernamento del canale lombare tramite le frese e le pinze ossee al fine di ricreare lo spazio adeguato per le strutture nervose.

  • Una volta operato di microdecompressione per stenosi lombare, cosa mi aspetta e come mi devo comportare?

Le indicazioni postoperatorie sono generalmente le stesse di quelle per l’ernia discale lombare e possono essere viste pertanto nella rispettiva sezione.

  • Che rischi e complicazioni ci possono esserci con la microdecompressione lombare ?

Anche qui le risposte sono sostanzialmente le stesse di quelle dell’ernia discale lombare. L’intervento di allargamento o rimodellamento del canale vertebrale può avere un rischio leggermente superiore di rottura dell’involucro durale, ovvero l’astuccio che contiene i nervi ed il liquor, e pertanto dare luogo a fistole e problemi di guarigione di ferita. In ogni caso, anche laddove dovesse succedere, il fatto che l’intervento sia stato effettuato con tecnica microchirurgica, e quindi con  minima dissezione dei tessuti, generalmente riduce molto la probabilità di una guarigione di ferita complicata.

Altre complicazioni più specifiche legate alla stenosi sono un insufficiente recupero della sensibilità o della forza dopo l’intervento. Ciò è legato più che alla procedura al fatto che la compressione delle strutture nervose, che vengono liberato con l’operazione, è di lunga data e a volte i nervi sono stati compressi per cosi tanto tempo che anche una volta liberati non recuperano più del tutto. L’insufficiente recupero della sensibilità è piuttosto frequente ma fortunatamente ciò succede molto più raramente per quanto riguarda la risoluzione del dolore e il recupero della forza.

Microdecompressione per la stenosi cervicale

  • Ho una stenosi cervicale (restringimento del canale cervicale), mi devo operare ?

La risposta breve in questo caso è : “se sintomatica molto probabilmente si … e anche piuttosto rapidamente. “

Come già discusso nelle sezioni dell’ernia lombare e cervicale, una compressione del midollo cervicale può presentare una criticità superiore a quella delle strutture nervose lombari. Il paziente con compressione midollare cervicale da stenosi deve essere esaminato meticolosamente per escludere un danno midollare in corso. Se questo viene confermato, l’intervento di decompressione del midollo dovrebbe essere preso in considerazione piuttosto rapidamente (sempre in base alla gravità e alle condizioni specifiche) per evitare ulteriori peggioramenti di natura anche irreversibile.

  • Come si svolge l’intervento di microdecompressione del canale cervicale?

Come già visto nella sezione delle ernie cervicali, la colonna cervicale si approccia anteriormente (passando attraverso le strutture del collo) per togliere il disco (o i dischi) intervertebrale e decomprimere il midollo spinale. Nei casi in cui, però, non è il disco, o una relativa ernia, la ragione principale della compressione, ma abbiamo un canale spinale stretto principalmente per ipertrofia dell’osso e dei legamenti, il midollo può essere decompresso anche con un approccio posteriore, in modo molto simile alla stenosi lombare. La scelta dell’approccio anteriore o posteriore è a discrezione del chirurgo e si basa su tutta una serie di fattori che a tutt’oggi sono spesso motivo di dibattito e discussione fra chirurghi spinali. Conviene discutere più in dettaglio possibile i pro e i contro dei due approcci in un caso di stenosi cervicale, per trovare insieme la scelta migliore caso per caso.

Da un punto di vista tecnico, come già accennato, l’approccio anteriore è sostanzialmente identico a quello per l’ernia cervicale, mentre l’approccio posteriore prevede gli stessi passaggi tecnici della decompressione lombare, anch’essa già discussa nella relativa sezione.

  • Una volta operato di microdecompressione per stenosi cervicale, cosa mi aspetta e come mi devo comportare?

Le indicazioni postoperatorie sono generalmente le stesse di quelle per l’ernia discale cervicale e possono essere viste pertanto nella rispettiva sezione.

Che rischi e complicazioni possono esserci con la microdecompressione cervicale?

Considerando che esiste la possibilità di un approccio anteriore oppure posteriore alla colonna, le complicazioni possibili cambiano in relazione alla via scelta. Per la via anteriore valgono le stesse considerazioni fatte per l’ernia discale cervicale, mentre per la via posteriore sostanzialmente solo quelle generali legate a qualsiasi tipo di operazione, e nella peggiore delle ipotesi, un danno al midollo spinale che è però estremamente raro al punto che risulta anche difficilmente quantificabile.

Impianto di protesi discali per la conservazione della mobilità

  • Cosa sono le protesi discali ?

Le protesi discali nascono con lo scopo di sostituire il disco intervertebrale una volta che questo è andato incontro a degenerazione o invecchiamento e ha magari anche dato luogo a una o più ernie discali. Considerando che il disco intervertebrale permette un certo grado di movimento fra le due vertebre in mezzo alle quali si trova, una volta che va incontro a degenerazione questo movimento può o aumentare o diminuire, in base al grado della degenerazione stessa.

Classicamente, laddove per via della malattia di un disco si rende necessaria la sua asportazione, o non viene messo nulla al suo posto oppure si procede ad un intervento di “fusione” ossea, ovvero di stabilizzazione fra le due vertebre fra i quali si trovava il disco, eliminando cosi il loro movimento con un miglioramento dei sintomi dolorosi.

Nel tempo si è tentato di sviluppare delle strategie per evitare questa eliminazione di movimento fra le vertebre cercando di trovare una soluzione che migliorasse i sintomi del paziente mantenendo la mobilità dell’articolazione. Nascono cosi le protesi articolari.

Una protesi discale consiste quindi in uno spessore che viene inserito nello spazio discale una volta che il disco è stato rimosso, e ha generalmente  due componenti, una superiore e una inferiore, che hanno fra di loro la possibilità di un certo grado di movimento dato o da un materiale plastico elastico deformabile in base ai movimenti o attraverso il meccanismo di una semisfera da un lato e una parte concava che la accoglie dall’altro che insieme consentono il movimento.

Le protesi discali esistono per i due segmenti della colonna vertebrale che sono dotati di maggiore mobilità, ovvero, la colonna cervicale e la colonna lombare.

  • Come si svolge l’impianto di una protesi di disco vertebrale ?

Considerando che la protesi discale deve avere una grandezza molto simile a un disco naturale, l’unico modo per posizionarla fra le due vertebre è attraverso un approccio anteriore alla colonna vertebrale.

Nel caso della colonna cervicale la procedura è pertanto identica a quella descritta nella microdiscectomia cervicale con la sola differenza che alla fine, anziché inserire uno spaziatore che porta alla fusione fra le due vertebre, si inserisce la protesi. Nel caso lombare l’approccio è attraverso la cavità addominale, spostando il suo contenuto in maniera tale da poter giungere sulla colonna lombare e poi poter eseguire sostanzialmente gli stessi passi già esposti per la discectomia cervicale. Una descrizione più approfondita di questo approccio si trova nella rispettiva sezione.

  • Devo operarmi a uno o più dischi vertebrali. Dovrei valutare con il chirurgo la possibilità di impiantare una protesi discale ?

L’indicazione di una protesi discale va vista molto nello specifico nel senso che, nonostante il concetto logico e promettente di una protesi che riproduce il movimento di un disco vertebrale sano, questa assunzione solo raramente si traduce linearmente in un chiaro vantaggio rispetto alla chirurgia “tradizionale”.

Le cause di questa mancata “traduzione” sono molteplici. A differenza di una grande articolazione, come un’anca o un ginocchio, che si prestano molto bene a delle protesi che riproducono il loro movimento, il disco intervertebrale è solo una componente del movimento fra due vertebre.

Inoltre, il disco di per se è solo una delle varie componenti possibili che possono dare luogo a sintomi dolorosi.  Spesso il mal di schiena, pur in presenza di uno o più dischi vertebrali degenerati, insorge da altre strutture anziché dal disco stesso.

Allo stato la letteratura mostra risultati globalmente deludenti per le protesi discali lombari. Per le protesi cervicali i risultati sembrano sovrapponibili alla chirurgia di fusione ossea con il vantaggio di migliorare la distribuzione di forze e di movimento sui dischi sani. Tuttavia, anche questo vantaggio non è facilmente quantificabile per cui al momento risulta più ipotetico che scientificamente provato.

In conclusione, in un paziente giovane, con un unico o due singoli dischi cervicali degenerati ed i restanti in buone condizioni, l’impianto di una protesi discale può avere un vantaggio nella salvaguardia futura del carico dinamico dei dischi sani e potrebbe pertanto essere preso in considerazione. La conferma chiara di questo vantaggio non è tuttavia ancora disponibile e pertanto non vi sono linee guida chiare a riguardo.

Microdecompressione discale con laser

  • Dottore, la mia ernia si può operare con il laser o devo fare l’intervento classico con il “taglio” ?

Questa domanda (o simili) viene fatta piuttosto frequentemente da chi ha sentito in giro, nei media o magari letto in internet di tecniche innovative e meno invasive per trattare le ernie del disco. 

Benché sicuramente ormai non più tanto innovativo, l’utilizzo del laser mantiene però una certa “aura”, se non futuristica, almeno di tecnicamente avanzato rispetto all’utilizzo del comune bisturi. 

Mentre questo è vero in certe circostanze in quanto il laser può in casi specifici essere usato proprio al posto del bisturi permettendo l’utilizzo di alcune sue caratteristiche particolari e raffinate, nel caso dell’ernia del disco ciò non è esattamente il caso e conviene chiarire qualche concetto. 

Va detto intanto che nell’intervento di ernia del disco il laser non sostituisce il bisturi. 

Parlando di discectomia con il laser e discectomia con il bisturi, o con il “taglio” classico, come spesso viene chiamato, si fa riferimento a due procedure molto diverse. 

Nel caso della discectomia classica con il bisturi, che può essere o meno microdiscectomia (vedasi l’articolo nella relativa sezione), si esegue una vera e proprio apertura del canale spinale con liberazione diretta del nervo dall’ernia che lo comprime mediante l’asportazione del ernia, e se necessario, anche uno svuotamento parziale o totale dello spazio discale da cui l’ernia è originata. 

Nel caso della discectomia mediante laser, invece, non si entra nel canale spinale e non si viene a contatto con le strutture nervose, ne tantomeno si asporta direttamente l’ernia che preme sul nervo, ma è proprio diverso il razionale che sottende a quest’intervento. La tecnica con il laser prevede, infatti, più che una discectomia una “decompressione” del disco vertebrale, ovvero una riduzione della pressione all’interno del disco. La fibra ottica che trasmette il laser all’interno del disco viene infatti introdotta nel disco attraverso un ago, quindi una semplice “puntura” ed azionando il laser all’interno del disco, questo vaporizza parte del nucleo polposo. Questa vaporizzazione e la conseguente riduzione di pressione all’interno del disco fa si che la sporgenza erniaria, risultante appunto da uno “spanciamento” del disco, si riduca, allentando cosi la sua pressione del nervo e migliorando la sintomatologia.  Il laser è quindi uno strumento che provoca attraverso la sua azione una decompressione indiretta del nervo

Da queste considerazioni risulta quindi più semplice comprendere che non tutte le compressioni nervose da ernia si possono risolvere attraverso questa “decompressione indiretta” mentre la decompressione diretta del nervo ha una garanzia quasi totale laddove la diagnosi è corretta. 

Resta il fatto che laddove siamo di fronte a un dolore nervoso, sciatalgico, da ernia discale suscettibile alla decompressione indiretta, il laser offre la possibilità di una procedura minimamente invasiva che può essere effettuata in anestesia locale a anche in ambito ambulatoriale, offrendo cosi chiaramente un enorme vantaggio rispetto all’intervento classico.

Endoscopia spinale per ernie discali e stenosi vertebrali

  • Qual’è la differenza fra microdiscectomia e endoscopia  per l’ernia del disco?

L’invasività. L’intervento endoscopico è oggi la miglior combinazione fra mininvasività e completezza disponibile per rimuovere un’ernia discale e/o decomprimere “direttamente” le strutture nervose del canale vertebrale. 

Come già descritto nella sezione sulla discectomia o microdecompressione con il laser, la differenza fondamentale fra le varie procedure mininvasive è la decompressione diretta e indiretta. 

Con la tecnica diretta si va a ispezionare e liberare, sotto visione,  direttamente il nervo o il midollo spinale, asportando, laddove necessario un’ernia discale. 

Con la tecnica indiretta, invece, si agisce generalmente o sul disco interveretebrale o sull’osso vertebrale con delle manovre che faranno si che la pressione discale si abbassi o il diametro del canale vertebrale aumenti, avendo poi come conseguenza una riduzione “indiretta” della pressione sulle strutture nervose coinvolte. 

Fino all’avvento dell’endoscopia spinale, la visione e visualizzazione diretta delle strutture nervose rappresentava il fattore limitante maggiore alla riduzione dell’invasività operatoria. 

Se si vuole vedere direttamente una struttura nervosa o checchessia occorre illuminarla  e liberarla dalle strutture circostanti. 

Il microsocpio operatorio ha permesso di ridurre le incisioni in maniera importante perchè permette di illuminare e ingrandire in profondità le strutture da operare che si trovano in fondo a uno stretto corridoio. Con l’endoscopia, invece, “l’occhio” dell’operatore arriva direttamente nell’immediata vicinanza della struttura da operare. Ciò accade perchè l’endoscopio è in pratica un sistema di fibre ottiche che da un lato veicolano la luce sul punto di interesse e dall’altro riportano indietro le immagini cosi illuminate della zona di interesse che vengono riprese da una telecamera e proiettate su uno schermo o monitor. Il chirurgo guarderà quindi la zona da operare direttamente sullo schermo potendola ingrandire a piacimento. L’intervento stesso sarà eseguito con degli strumenti che verranno introdotti attraverso il “canale di lavoro” che si trova accanto al canale ottico appena descritto e la grandezza complessiva del sistema endoscopico varia in base a questa grandezza. Il diametro dell’endoscopio complessivo rimane cosi in genere al di sotto di 1 cm

Trattandosi di una struttura tubolare che non richiede un’ulteriore ingrandimento dell’incisione oltre al suo diametro, il taglio di cute è anch’esso attorno a 1cm.  L’introduzione dell’endoscopio fino alla zona di interesse da operare avviene poi attraverso la dilatazione delle strutture tessutali che attraversa,  comportando quindi un traumatismo minimo e richiede uno scollamento del muscolo dalle strutture da operare ridotto al minimo indispensabile. 

Per tali motivi il recupero dopo un intervento endoscopico può essere praticamente immediato o ridotto al minimo, in base al caso. 

  • La mia ernia del disco può essere operata con l’endoscopio ?

Va visto nello specifico. In linea di massima si può operare qualsiasi ernia del disco con l’endoscopio ma per alcuni tipi di ernia potrebbe essere che la complessità della procedura fa si che lo sforzo necessario non valga la pena e che quindi è più semplice e conveniente ricorrere alla microdiscectomia. Un altro fattore limitante l’endoscopia è la sua disponibilità ed il costo. L’intervento di asportazione di un’ernia tramite l’endoscopio richiede l’utilizzo di materiale monouso che va acquistato per ogni paziente ed ha un costo relativamente alto

Con gli attuali sistemi e tariffe di rimborso per gli interventi chirurgici da parte dello stato o delle assicurazioni sanitarie, l’intervento di endoscopia per la rimozione di un’ernia discale o di una decompressione del canale vertebrale spesso non viene sufficientemente coperto. Questi interventi, in virtù del fatto che sono molto frequenti, vengono purtroppo rimborsati poco da parte dello stato e spesso anche da parte delle assicurazioni, nonostante il fatto che siano di un livello di complessità e di specializzazione necessaria piuttosto alto. 

Riassumendo, la difficoltà tecnica ad eseguire appropriatamente la procedura endoscopica in ernie discali più complesse e il fatto che questi interventi generalmente non vengono rimborsati in maniera sufficiente per coprire i costi della procedura relativamente alti, fanno si che allo stato la tecnica endoscopica tarda ancora a diffondersi su larga scala

Si spera che con una preparazione sempre più adeguata dei nuovi chirurghi che si vogliono dedicare a questa branca e un adeguamento delle tariffe di rimborso che rispettino i costi maggiori necessari, questa procedura possa in futuro avere la giusta diffusione

Vertebroplastiche e Cifoplastiche per fratture

  • Cosa si intende quando si parla di operazione di  vertebroplastica ?

La vertebroplastica, spesso anche chiamata “cementificazione” di una o più vertebre comporta l’iniezione di un cemento acrilico all’interno del corpo vertebrale per consolidarlo. 

Il cemento acrilico, chiamato nello specifico polimetilmetacrilato o PMMA, è un composto che viene ottenuto mescolando una parte solida sotto forma di polvere e una componente liquida, proprio come viene fatto con il cemento comune mescolando la parte polverosa con acqua. Nel caso del PMMA , una volta unite e mescolate le componenti si verifica una reazione chimica chiamata polimerizzazione che porta rapidamente al consolidamento e quindi indurimento della composto ottenuto. Questa caratteristica viene sfruttata per iniettare il composto ancora sotto forma liquida all’interno della vertebra attraverso un ago con il successivo indurimento una volta all’interno. 

  • Per quali problematiche viene fatta la vertebroplastica?

Trattandosi di un consolidamento di un corpo vertebrale, la vertebroplastica viene fatta principalmente in quei casi in cui una vertebra si è fratturata e persiste la minaccia che possa ulteriormente abbassarsi in altezza , oppure laddove la frattura non va incontro a guarigione spontanea

Le fratture vertebrali impiegano generalmente circa 2 mesi per riconsolidarsi ed in questo periodo il dolore associato alla frattura tende gradualmente a diminuire permettendo cosi un ritorno alle attività fisiche consuete. 

Nei casi in cui tale guarigione spontanea però non avvenga, o perché l’osso vertebrale è porotico per via dell’età o indebolito da tessuto tumorale, per fare due esempi di casi frequenti, la frattura continua a fare male ed il paziente rimane costretto a portare un busto per ridurre il carico sulla colonna e quindi sulla vertebra, o le vertebre, interessate. 

In questi casi, in cui una guarigione spontanea con consolidamento della vertebra risulti ormai impossibile o solo difficilmente possibile, si può eseguire la vertebroplastica con una stabilizzazione immediata della vertebra e con ciò anche una scomparsa o riduzione importante del dolore associato alla persistenza dell’instabilità. 

Va sottolineato che l’instabilità che viene consolidata con l’iniezione di cemento nella vertebra riguarda solo la vertebra stessa e ovviamente non l’instabilità che si può creare fra due vertebre perché l’articolazione fra di loro è stata interrotta e seguito di un fatto traumatico. In quei casi occorre eseguire una stabilizzazione fra una o più vertebre, fra loro instabili, il che si esegue solitamente con vite e barre come vediamo nella rispettiva sezione. 

  • Come si svolge l’intervento di vertebroplastica ?

La procedura di vertebroplastica è una cosiddetta procedura “percutanea”. Il termine percutaneo indica che una procedura viene svolta “attraverso” la cute e ciò generalmente con un ago o una incisione molto piccola, sufficiente appena per introdurre lo strumento, e quindi senza diretta visualizzazione delle strutture ma generalmente una visualizzazione delle strutture sulle quali si interviene tramite i raggi-X. 

Nella vertebroplastica, infatti, si eseguono multiple radiografie che visualizzano la vertebra e l’ago che in essa viene introdotto e una volta che l’ago è nella posizione desiderata, si visualizza il cemento che gradualmente viene introdotto nel corpo vertebrale espandendosi al suo interno come una nuvola o macchia che si allarga. Raggiunto un buon riempimento della vertebra con il cemento si ritira l’ago e la procedura è conclusa. Solitamente bastano pochi millilitri di cemento, da 3 a 5 circa, per ottenere un buon risultato. 

Considerando che l’ago per la vertebroplastica è di pochi millimetri di diametro, la procedura è mininvasiva e solitamente eseguibile in anestesia locale. Tutta la procedura dura circa 20-30 minuti e visto il consolidamento rapido del cemento all’interno della vertebra, la ripreso della mobilizzazione è praticamente immediata senza necessità di convalescenza

  • Qual’è la differenza fra vertebroplastica e cifoplastica ?

La vertebroplastica comporta la semplice iniezione diretta di cemento all’interno di un corpo vertebrale cosi com’è. La cifoplastica prevede prima l’introduzione nella vertebra di un palloncino che viene gonfiato o un dispositivo metallico che si espande una volta nel corpo vertebrale, per cercare di ristabilire una normale o pressoché normale altezza del corpo vertebrale fratturato. Una volta ottenuto questo risultato si inietta poi il cemento cosi come nella normale vertebroplastica. La scelta fra le due tecniche va vista da caso in base alle necessità e ciò che si vuole ottenere. In linea di massima la vertebroplastica è sufficiente laddove si vuole consolidare una vertebra non particolarmente abbassata a seguito della frattura e che continua a far male, mentre la cifoplastica viene prediletta laddove si pensa di poter e dover migliorare l’altezza vertebrale e quindi mirare a una ricostruzione anatomica dell’altezza vertebrale originale più vicina possibile. 

  • Che rischi comporta la vertebroplastica ?

Come già visto, la vertebroplastica è una procedura molto poco invasiva e rapida. Considerando che si agisce sempre sotto controllo radiografico, il malposizionamento dell’ago che serve a convogliare il cemento all’interno della vertebra è possibile ma molto poco probabile. La fase più rischiosa è quella dell’iniezione vera e propria del cemento acrilico ancora in forma liquida. In questa fase, e prima che la vertebra si sia riempita con il successivo consolidamento del cemento stesso, questo può stravasare e migrare all’interno di vasi venosi che drenano il sangue dalla vertebra verso il cuore e poi i polmoni e provocare cosi delle embolie da cemento con ostruzione venosa. Le conseguenze di ciò possono essere anche molto gravi ma la probabilità che una tale embolia da cemento si verifichi è sotto 1% e nella maggior parte dei casi asintomatica. 

L’altra possibilità e la migrazione di cemento all’interno del canale vertebrale con successiva compressione di strutture nervose. Anche questa è molto rara e laddove si presenti viene generalmente risolta bene con un’intervento di decompressione e rimozione del cemento. 

Oltre al solito rischio di infezione e sanguinamento degli interventi chirurgici in genere, questi rischi specifici sono molto bassi e la probabilità può essere tenuta tale con indicazione e scelta dei casi appropriata.

Stabilizzazioni vertebrali mininvasive con tecnica percutanea

  • In cosa consiste una stabilizzazione vertebrale mininvasiva  percutanea ?

La stabilizzazione vertebrale mininvasiva percutanea è una tecnica chirurgica che permette di unire insieme due o più vertebre con l’utilizzo di viti e barre (spesso chiamate anche “placche”) e viene utilizzata principalmente nei tratti dorsale e lombare della colonna vertebrale

A prescindere dal motivo per il quale si possa rendere necessaria una tale stabilizzazione, o fusione, vertebrale, la tecnica percutanea è oggi sicuramente la meno invasiva e ha contribuito a un cambiamento importante nella chirurgia vertebrale negli ultimi 20 anni. 

L’obiettivo di una stabilizzazione vertebrale è quello di inserire delle viti di una lunghezza di circa 4-5 centimetri ed un diametro di 5-6 millimetri in due o più vertebre ed unirle poi con delle barre di 5-6 millimetri di diametro. Queste barre vengono ancorate in maniera fissa alle viti ottenendo cosi un costrutto stabile, ovvero, la cosiddetta stabilizzazione vertebrale. 

In un secondo momento poi, sull’arco di qualche mese da questo impianto (che potremmo definire stabilizzazione “primaria”) , si crea una crescita ossea fra le vertebre cosi stabilizzate che rafforza ulteriormente il costrutto  con una vera e propria fusione ossea (che può essere chiamata stabilizzazione “secondaria”

Prima dell’avvento della tecnica percutanea le viti venivano inserite nelle vertebre mediante la cosiddetta tecnica “open” (inglese per “aperto”) che prevedeva una esposizione più ampia possibile del tratto vertebrale da stabilizzare per visualizzare in maniera diretta i punti sulla colonna vertebrale dove dovevano essere inserite le viti. La colonna vertebrale è ricoperta e viene sorretta  e mossa da una estesa trama muscolare. La visualizzazione diretta della colonna comporta la necessità di dover “staccare” questi muscoli dall’osso vertebrale, eseguire l’impianto delle viti e barre e poi richiudere l’apertura chirurgica piuttosto ampia per attendere circa due mesi prima che la muscolatura si riattacchi all’osso vertebrale. 

Con la tecnica di stabilizzazione vertebrale percutanea questi passaggi sono radicalmente cambiati rendendo cosi l’intervento molto meno invasivo, ovvero, miniinvasivo

La differenza fondamentale fra la stabilizzazione vertebrale tradizionale e quella mininvasiva percutanea è che le strutture anatomiche, ovvero le vertebre dal stabilizzare, non devono essere più visualizzate direttamente ma attraverso l’utilizzo di apparecchi a raggi-X.  Cosi, anziché visualizzare direttamente le vertebre ed i rispettivi punti di inserimento delle viti dopo averle liberata dalla muscolatura, con la tecnica percutanea la vertebra e le viti vengono visualizzate mediante i raggi-X e le viti inserite nelle vertebre attraverso dei tagli  sulla cute poco più grandi delle viti stesse con un arrivo della vite sulla vertebra tramite la dilatazione delle fibre muscolari che non devono essere staccate dalla colonna. 

Una volta posizionate cosi le viti, ognuna attraverso una sua piccola incisione, esistono vari sistemi per far passare, senza dover necessariamente unire questi tagli, le barre fra una vite e l’altra per poterle fissare insieme. 

In questo modo possono essere eseguite tutti i tipi di stabilizzazione vertebrale più comuni come la semplice fusione posterolaterale in cui all’inserimento di viti e barre nelle vertebre si associa o meno l’apposizione di osso sugli elementi posteriori della colonna per favorire una fusione ossea. 

Un’altra tipologia di stabilizzazione lombare frequente, e maggiormente associata alla tecnica percutanea è la cosiddetta “TLIF”, acronimo dall’inglese “Transforaminal Lumbar Interbody Fusion” o fusione lombare intervertebrale transforaminale. In quest’intervento viene svuotato lo spazio discale fra due vertebre ed inserito uno spaziatore all’interno dello spazio discale per favorire la stabilità e la fusione ossea fra le vertebre. Tutto ciò avviene attraverso la stessa via di accesso delle viti e tramite un corridoio di separazione muscolare senza necessità di “staccare” i muscoli dalla colonna o invadere il canale vertebrale. 

Infine, occorre menzionare anche un’ultima procedura di stabilizzazione lombare molto frequente che la cosiddetta “PLIF”, sempre acronimo dall’inglese “Posterior Lumbar Interbody Fusion” o fusione lombare intervertebrale posteriore. Anche questa tecnica comporta lo svuotamento dello spazio discale e l’inserimento in genere di due distanziatori nello spazio discale per la stabilità e per favorire al fusione. Il termine “posteriore” fa riferimento al fatto che l’accesso è direttamente posteriore e comporta quindi uno scollamento di muscoli paravertebrali per esporre la parte posteriore della colonna e anche l’apertura del canale vertebrale con passaggio a destra e a sinistra delle strutture nervose per inserire gli spaziatori nello spazio discale. 

Benché questo intervento comporti già una certa invasività superiore, può comunque beneficiare dall’inserimento separato delle viti e barre mediante la tecnica percutanea minivasiva

  • Qual’è il vantaggio di una stabilizzazione vertebrale mininvasiva percutanea?

I vantaggi della stabilizzazione vertebrale mininvasiva sono molteplici. 

Non essendo più necessario esporre completamente il tratto della colonna vertebrale da operare non serve fare dei tagli di cute grandi e non serve staccare la muscolatura dalla colonna vertebrale il che è molto invasivo. 

Tagli più piccoli e la possibilità di lasciare intatta la muscolatura si traducono direttamente in un rischio minore di infezioni, una perdita di sangue minima e molto inferiore all’intervento tradizionale, un dolore postoperatoria molto minore, una fase di convalescenza molto più breve e pertanto un ritorno alle abituali attività più rapido. Inoltre, la visualizzazione diretta del percorso delle viti nelle vertebre mediante i raggi-X fa si che la tecnica percutanea è più precisa con meno rischio di malposizionare le viti e quindi creare dei danni alle strutture nervose. 

Riassumendo, i vantaggi della tecnica mininvasiva sono evidenti e tanti rendendola ormai la tecnica di scelta per un gran numero di chirurghi vertebrali . 

  • Che rischi ci sono con la stabilizzazione vertebrale mininvasiva?

Come già esposto nella sezione precedente, i rischi abituali di infezione e sanguinamento, che abbiamo in qualsiasi intervento chirurgico, sono ridotti al minimo. Esiste poi il rischio di malposizionamento degli impianti che può anche provocare dei danni nervosi ma anche questi sono molto ridotti rispetto alla tecnica tradizionale. Oltre a questi i rischi sono quelli della stabilizzazione vertebrale in genere e sono principalmente il fallimento dell’impianto con la rottura o il distacco dall’osso di una o più viti o barre o la mobilizzazione degli impianti nell’osso con risultante instabilità e necessità di dover reintervenire. Queste complicazioni “strutturali” delle stabilizzazione vertebrali variano comunque molto con il tipo e anche l’estensione dell’intervento da eseguire e con le condizioni specifiche del paziente da operare e vanno pertanto viste in maniera specifica di volta in volta.

Impianto di stimolatori spinali per il mal di schiena e la sciatica

Benché vi sia una sezione completa dedicata alla neurostimolazione, vale la pena menzionare la stimolazione spinale nell’ambito della chirurgia spinale mininvasiva.

  • Cosa si intende per stimolatore spinale per il mal di schiena ?

Il motivo più frequente per cui si esegue un intervento chirurgico sulla colonna vertebrale è per trattare una condizione che genera dolore, o al livello della colonna stessa e/o anche nelle gambe o braccia. Mentre gli interventi fin qui descritti trattano questo dolore attraverso la riparazione o rimozione di un danno strutturale sulla colonna, la stimolazione spinale non si occupa del potenziale danno effettivo della colonna vertebrale ma interviene direttamente sulla trasmissione del dolore interrompendola

Questa interruzione del dolore si basa sul principio che ogni sensazione, quindi anche il dolore, deve “viaggiare” dalla periferia del corpo al cervello per essere resa consapevole e poter essere percepita. Questo percorso del segale del dolore prevede la sua ascesa al cervello lungo il midollo spinale che corre nel canale spinale. Nella stimolazione spinale si va ad intercettare proprio questo segnale mentre risale lungo il midollo spinale per interromperlo o alterare la sua natura. 

Il modo in cui questo viene ottenuto è tramite il posizionamento di uno o più elettrodi nel canale spinale,  a stretto contatto con il midollo spinale, che mandano dei segnali elettrici, stimoli, al midollo stesso alternandone cosi le proprietà di trasmissione dei segnali che viaggiano al suo interno. 

  • In quali casi si ricorre alla stimolazione spinale ?

La stimolazione spinale è un trattamento per combattere il dolore

Viene applicata principalmente in due casi, ovvero laddove non si trova una vera e propria causa del dolore oppure laddove il danno effettivo risulti non aggredibile con la chirurgia o siano già stati compiuti uno o più tentativi di chirurgia senza esito positivo

Come si svolge l’intervento di stimolazione spinale ?

L’intervento di stimolazione spinale è da considerarsi un intervento di chirurgia mininvasiva

L’intervento base prevede, infatti, l’introduzione di uno o più elettrodi nel canale vertebrale attraverso un ago. Quest’ago viene posizionato nel canale vertebrale attraverso la cute tramite controllo radiografico con apparecchi a raggi-X ed è pertanto una tecnica percutanea

Una volta posizionati gli elettrodi nella posizione desiderata a stretto contatto con i midollo, viene praticata una tasca sottocutanea per alloggiare una piccola batteria, un pacemaker, al quale gli elettrodi, sempre sottocute, vengono connessi a da cui ricevono gli impulsi elettrici da trasmettere al midollo spinale. 

  • Qual è l’efficacia della stimolazione spinale ?

La capacità della stimolazione spinale di interrompere o modificare segnali dolorosi che giungono dalla periferia del corpo, come gambe o braccia, al cervello è elevata e in casi ben selezionati si arriva a un buon controllo del dolore nel 80% circa dei casi. 

  • Quali sono i rischi della stimolazione spinale ?

Essendo una tecnica minivasiva i rischi operatori sono altrettanto ridotti al minimo. Con una probabilità di successo della tecnica valutata attorno al 80% in maniera generale, significa che nel 20% dei casi la stimolazione non avrà l’effetto desiderato e ciò è pertanto senz’altro il rischio maggiore

Altri rischi sono poi i soliti della chirurgia, ovvero, l’infezione e il sanguinamento che possono richiedere nuovi interventi di riparazione, cosa che si può rendere necessaria anche nei casi di rottura del materiale impiantato. Rischi maggiori come danno a strutture nervose sono, infine, estremamente bassi e difficilmente quantificabili.

Sono a tua completa disposizione per parlare insieme del tuo caso